€15.00
Valutazione
2004
Gruppo di lavoro Aiaf Luca D’Onofrio, (coordinatore g.d.l.) – Consulting Services Cap Gemini Italia S.p.A., socio Aiaf, membro del C.D. Pietro Gasparri, (coordinatore sotto gruppo “holding pure”) – Equity Analyst – Banca Akros S.p.A, socio Aiaf Antonino Lo Sardo, (coordinatore sotto gruppo “holding miste”) – Nagima s.r.l. Igor Calcio Gaudino, Gestioni Patrimoniali – Banca Reale S.p.A. Christian Carrese – Banking Analyst – Intermonte Sim S.p.A., socio Aiaf Paolo Casa, Morelli & Partners, socio Aiaf Paolo Concaro – Effe Gestioni, socio Aiaf Andrea Franceschini, Toro Assicurazioni S.p.A Sabrina Frassi – BIM Banca Intermobiliare Nino Mascellaro, Investment Analyst – Centrobanca Sviluppo Impresa SGR S.p.A., socio Aiaf Antonio Motta, Centrosim S.p.A., socio Aiaf Gerardo Murano – consulente finanziario e aziendale Davide Negri, PhD – Research Scientist at University of Illinois at Chicago Carmelo Pappalardo, Finance & Control – International Planning & Control – TIM S.p.A., socio Aiaf Emilio Rolih, Gruppo Servizi Anna Sacerdoti – Consultant – IBM Italia, socio Aiaf
PRESENTAZIONE di Giorgio Donna (Professore Ordinario di Economia Aziendale – Università di Torino; Partner Nagima)
Le Holding sono un modello organizzativo complesso: difficili da gestire, difficili da valutare. In più, rappresentano anche un modello controverso: c’è chi ne vede grande potenzialità per consentire ad un’impresa di crescere mantenendo flessibilità e consentendo agli azionisti di ridurre il rischio del loro investimento; c’è chi ne vede limiti e pericoli, legati agli eccessi della diversificazione e al facile crearsi di strutture di governo costose e burocratiche.
Ed ognuno può portare casi ed esempi a sostegno della propria tesi. L’esperienza insegna che, quando su un certo argomento si sostengono posizioni diverse e contrastanti, è probabile che quell’argomento sia affrontato con qualche superficialità, forse perché poco studiato, forse perché male praticato.
È quindi probabile che “ognuno abbia qualche ragione e tutti abbiano torto”; è certo che si debba approfondirne la conoscenza e ampliare il dibattito e il confronto. Così soltanto si potranno acquisire idee più chiare, fare giustizia di prassi ingiustificate, ridurre il margine d’errore nelle scelte e nelle valutazioni.
Chi scrive è convinto che manager e analisti finanziari continuino, sul tema delle holding, ad essere attori e spesso vittime di molti equivoci, le cui conseguenze sono di non poco conto: scelte di diversificazione sbagliate; scelte di diversificazione potenzialmente corrette ma gestite con modalità organizzative che ne pregiudicano il successo; valutazioni afflitte da errori nelle stime delle prospettive economiche e finanziarie o del grado di rischio dell’impresa.
Alla base di queste insidie sta la complessità del tema, sul quale convergono problematiche relative ai modelli di Governance (la Holding come strumento di controllo di più società), ai modelli di business (la Holding come strumento di governo coordinato di business tra loro sinergici), ai sempre presenti interessi a trovare scudi di protezione dei profitti (la Holding come strumento di sfruttamento di opportunità sul piano finanziario e fiscale).
In linea di principio, anche una Holding, come ogni impresa, deve sapere creare valore: ciò sta a significare che una Holding ha senso economico se è capace di aggiungere valore alle imprese da essa controllate in misura maggiore rispetto ai costi che essa genera (per il suo funzionamento, per il controllo e coordinamento delle società possedute, ecc.).
In mancanza di questa condizione, il mercato avrebbe interesse a che le singole imprese controllate si emancipassero, cioè acquisissero autonomia imprenditoriale, liberandosi dai vincoli e dai costi che l’appartenenza ad un gruppo invariabilmente genera a carico di una società. Proprio questi vincoli e costi sono all’origine del conglomerate discount con cui spesso il mercato penalizza il valore di molte holding quotate.
Come meglio argomentato in altra sede (1), le vie attraverso le quali una struttura di governo come una Holding può creare valore sono riconducibili sostanzialmente a tre:
Le qualità che concorrono a creare valore sono diverse nei tre casi: nel primo, la Holding deve esprimere superiori capacità manageriali, necessarie per gestire con efficienza un sistema reso complesso dall’intrecciarsi dei processi dei diversi business; nel secondo, la Holding fa leva su una peculiare dotazione di risorse strategiche, e quindi viene a rappresentare, per i business in portafoglio, un azionista capace di fornire loro una marcia in più sul piano competitivo; nel terzo caso, infine, la creazione di valore va ascritta alla capacità della Holding di svolgere un vero e proprio ruolo imprenditoriale, associando sensibilità strategica, creatività, intuito, capacità negoziale, rapidità decisionale, cioè le tipiche qualità degli imprenditori di successo. Invece non basta, per creare valore, svolgere un ruolo da azionista meramente finanziario, come quello tipicamente esercitato dalle cosiddette Holding pure.
Il loro ruolo non consiste nel contribuire alla gestione delle imprese partecipate, che invece debbono potersi muovere in autonomia, senza sottostare a regole organizzative e oneri economici che finirebbero soltanto per limitarne la capacità competitiva.
Il loro compito è piuttosto di servire al meglio l’investitore, da un lato configurando il portafoglio degli impieghi in modo da minimizzare il rischio complessivo (e quindi, ad esempio, ricercando partecipazioni il meno possibile correlate e il più possibile complementari dal punto di vista congiunturale, del grado di maturità, ecc.) e dall’altro operando come azionista attivo e intelligente, sensibile ai risultati, alle prospettive e ai rischi di ogni impresa partecipata. A differenza delle Holding operative, che rappresentano il vertice di governo di un gruppo multibusiness, le Holding pure sono invece un’entità strumentale ad una gestione ottimale di un portafoglio di partecipazioni diversificato.
Non è un caso che realtà di questo tipo abbiano di regola un azionista di riferimento preciso, spesso rappresentato da un gruppo familiare o da un gruppo di investitori finanziari. E le domande che sorgono spontanee in questi casi sono: che appeal possono avere titoli di società di questo tipo per il mercato? ha senso che siano quotate in Borsa, quando un singolo investitore può costruirsi a piacimento un proprio portafoglio, o farlo attraverso un Fondo di investimento? Come questi brevi accenni ci ricordano, il tema è spinoso e complesso, e come tale merita attenzione, dibattito, confronto.
In questa prospettiva, lo sforzo promosso dall’AIAF è sicuramente apprezzabile, e meritevole di seria considerazione i contributi che questo rapporto raccoglie.